Cosa c’è che non va nelle pubblicità gay?
La ricordate la pubblicità di Findus, quella di “Mamma, Gianni non è solo il mio coinquilino, è il mio compagno!”? E quella di Tiffany & Co., dove i due protagonisti sono seduti sulle scale con la fede al dito?
Ve ne vengono in mente altre? No? E invece ce ne sono! Esempi celebri sono quelle prodotte da Althea, Vodafone, Ikea, Lavazza, per citare i brand più noti.
Che cosa è successo negli ultimi quarant’anni perché persone qualificate di volta in volta come invertiti, pervertiti o malati mentali siano arrivati ad essere soggetti di punta nelle pubblicità commerciali?
In effetti, di cose ne sono successe. C’è stato uno sviluppo medico-scientifico che ha ribattezzato l’omosessualità come “variante naturale” del comportamento umano (OMS, 1990). C’è stato un processo politico-giuridico che, affiancato dal supporto popolare, ha accordato diritti.
Parafrasando Foucault, l’omosessuale dal sodomita che era, si è trasformato in un personaggio con un passato, una storia, un’infanzia, un carattere, una forma di vita. Non c’è più solo l’atto, c’è anche l’attore. Ma perché è successo? Perché si tratta di una variante naturale del comportamento umano, appunto, e a meno di non ammettere di essere una società apertamente razzista, i diritti bisogna accordarli.
Ed ecco che entra in gioco un elemento segmentario della cultura: il mercato. Se il processo di sviluppo politico e giuridico avvalla le possibilità di potenziare un’affermazione delle famiglie gay e lesbiche, conseguentemente esse diventano attrattive per i settori del marketing e del consumo, i quali si esprimono attraverso strategie operative di pubblicità. È chiaro che l’attenzione del marketing si sposta sulle gay issues non solo per gli evidenti aspetti relativi al progresso dei diritti, ma anche per le ricadute economiche. Ciò non toglie che esse rendano possibile una più vasta affermazione del soggetto omosessuale all’interno della vita sociale: ci troviamo in una società “visiva” e “oculocentrica”, che ha bisogno di vedere per comprendere e rendere “accettabile” qualcosa. Un oggetto o un’azione vista in tv o su internet è sottoposta, dallo spettatore, a un’attività di socializzazione: essa diventa comune, normale. Se la televisione o i social media o i video raccontano di omosessuali, essi probabilmente verranno considerati – in un processo tutto fuorché breve – “normali”. Il punto è come vengono rappresentati.
Il “purché se ne parli”, va bene fino a un certo punto. Perché non basta rappresentare qualcuno: se lo rappresenti male, lo hai rappresentato, ma male. Pubblicità, spesso osannate dalle associazioni lgbt (è l’acronimo per lesbiche-gay-bisessuali-trans*), contengono infatti nefandezze e distorsioni culturali.
È sicuramente un bene che il marketing si sia orientato verso un determinato segmento della società, ma essendo produttore di oggetti estetici e artefatti socio-politici (quali sono le pubblicità) ha anche una grande responsabilità.
Da un mio studio di sociologia visuale sul marketing lgbt in Italia, le pubblicità con soggetti gay risultano essere di numero esiguo, con una media di 1,6 pubblicità all’anno. Sono pochine, diciamo.
In Italia, inoltre, il maggior numero di lgbt advertisements è stato prodotto tra il 2011 e il 2015: questa prolificità può essere collegata sia alla progressiva introduzione delle gay issues all’interno del dibattito contemporaneo, sia al fatto che determinati diritti sono già stati concessi in quasi tutte le nazioni europee e occidentali.
I soggetti lgbt quasi sempre sono rappresentati in maniera chiara: sono evitati i window dressing (le immagini di “facciata”) o i gay vagues, comprendenti indicazioni velate. Insomma in quelle pubblicità (poche) che li vedono protagonisti, non c’è nessun velo di “detto-non-detto”, nessun “boh, forse mi sa che quei due sono gay”. Il loro orientamento sessuale non è latente: o si tengono per mano, o si baciano, o i claim sono rivolti all’apertura mentale.
Ma non è tutto oro quel che luccica. I soggetti sono inseriti sempre in un contesto di estrema leggerezza, quotidianità, spensieratezza. Anche quando si affrontano temi come il coming out, processo di transizione essenziale nella vita di molti omosessuali- che può rappresentare un momento di grande sofferenza e lunghi anni di psicoterapia- il tema sembra essere la convivialità e la felicità di tutti: la volontà di ricreare, con un effetto “Mulino Bianco”, la società ideale e la serenità a cui ogni famiglia aspira, ma che finisce per ridicolizzare alcune esperienze.
Sembrano dire: “State tranquilli, è tutto sotto controllo. È tutto normale”.
Gli omosessuali sono rappresentati come normal folk. E questa presunta normalità è sottolineata, evidenziata senza innuendo. Ma se si sottolinea che qualcosa è normale, allora si sarebbe portati a pensare che così normale non è. Altrimenti che bisogno ci sarebbe di sottolinearlo? E non importa se il fotografo sia un eterosessuale, un omosessuale o un/una transessuale: la cultura agisce su tutti, perché tutti viviamo in una società dove predomina il timore eteronormativo di fare qualcosa di male se non si seguono alcune regole. Ah, la morale.
Diane Arbus e Nan Goldin, fotografe grunge, ci hanno insegnato che esiste un altro mondo che si sottrae alle regole dei middlebrow, dei borghesucci mediamente colti che passavano il tempo sul divano di casa con una tazza di té a farsi una concezione sbagliata degli altri. Un mondo fatto di realtà immaginate come mitologiche, di persone pensate come moderni ircocervi: rappresentare un travestito o un giovane omosessuale morente di AIDS non necessita di normalizzazione, perché è vita e non artificio creato ad arte per soldi. Ma la loro era poesia.
Nel marketing gay affiora un’idea di eteronormatività che si pone come necessità da raggiungere, come sogno da realizzare. In qualche modo sembra che per rendere accettabile la presenza omosessuale all’interno del settore commerciale sia necessario “rassicurare” il pubblico. La comunità eterosessuale diviene un obiettivo ambito che fagocita l’immagine “anomala” della persona omosessuale per trasformarla e liberarla del suo spirito rivoluzionario. La rappresentazione di gay e lesbiche viene distorta da immagini fortemente orientate a “normalizzarli”: bianchi, di classe medio-alta e straight- looking con il desiderio di sposarsi.
Allora via il gay effeminato – “i gay non sono solo così”, via l’immagine delle lesbiche butch – “le lesbiche sono anche femminili”, via la trans con la vociona – “ci sono transessuali che sembrano donne”.
E invece la realtà è che tantissimi gay sono effeminati (prendiamo la nozione di concetto di effeminatezza-femminilità con le pinze, senza scomodare Judith Butler), tantissime lesbiche sono mascoline (vedi la parentesi precedente) e altrettante transessuali hanno il vocione.
E allora?
Il presente articolo è stato pubblicato sul sito www.bossy.it, in data 9/11/2015.